L’8 dicembre 1991 si scioglieva l’Unione Sovietica: la notte di Natale (il 25 dicembre 1991), la bandiera rossa viene ammainata sul Cremlino e l’ultimo segretario generale del Pcus Gorbaciov si dimette
Quindici repubbliche, oltre 22 milioni di chilometri quadrati di territorio, più di 290 milioni di abitanti con 200 lingue e dialetti, l’Urss allora era il Paese più grande del mondo
A fine dicembre l’allora presidente Gorbaciov, il padre della “perestroika” (il complesso di riforme sociali, politiche ed economiche avviato nel 1986) e della “glasnost” (trasparenza) si dimetteva segnando la fine di un capitolo di storia durato 75 anni, quello del comunismo.
La domanda principale era “e adesso cosa succederà? Cosa sarà di noi?”, ricorda Giuseppe D’Amato, collaboratore della RSI a Mosca, che apprese la notizia al rientro nella capitale da un reportage in Uzbekistan, la mattina del 9 dicembre. “Si veniva da una lunga crisi politica ed economica, c’era stato in agosto il tentato golpe con i carri armati nelle strade e per mesi i negozi erano rimasti vuoti. I sentimenti erano di sorpresa, incertezza e paura”.
Quell’anniversario non è stato commemorato mercoledì in Russia: il primo canale televisivo, racconta D’Amato, “ha brevemente ricordato i fatti, senza nessun commento”. Eppure si tratta di uno dei fatti storici di maggiore importanza del ‘900, con conseguenze molto concrete anche sullo scacchiere geopolitico di oggi.
“La dissoluzione ha pesato tantissimo, ha completamente cambiato lo scenario internazionale, in meglio o in peggio a dipendenza dei punti di vista”, afferma Aldo Ferrari, professore di storia russa ed Eurasia all’Università di Cà Foscari di Venezia e responsabile del settore Russia, Caucaso e Asia centrale dell’ISPI di Milano. “Da un unico grande Stato sono comparse 15 repubbliche, si è spezzato l’insieme storico, culturale e politico che per due secoli, già in epoca zarista, aveva tenuto insieme tante popolazioni”. Ne sono nati anche dei conflitti e se alcune cose “sono chiaramente migliorate, altre rimangono problematiche, come le difficoltà nel convivere fra diverse repubbliche”.
L’esempio di stretta attualità è quello dei rapporti critici fra Russia e Ucraina, alla quale Mosca ha sottratto la Crimea (a larga maggioranza russofona) e dove da anni si trascina un conflitto fra i ribelli e il Governo, che gli accordi di Minsk non hanno risolto anche perché Kiev non applica il punto che prevede una decentralizzazione del potere. Nelle ultime settimane la Russia – per la quale un’adesione ucraina alla NATO è una “linea rossa” da non oltrepassare – ha ammassato truppe al confine con il vicino. Così facendo, ha fatto temere un’invasione, un’eventualità che preoccupa l’Unione Europea e gli Stati Uniti, i quali hanno minacciato pesanti rappresaglie anche se Joe Biden esclude un intervento militare diretto.
I problemi in questo e altri casi non nascono comunque solo dalla dissoluzione ma anche più indietro nel tempo, nei confini interni tracciati dall’Unione Sovietica già dagli anni ’20 del secolo scorso. “Molte delle frontiere di allora sono contestate e problematiche, quella russo-ucraina in particolare, ma bisogna pensare anche a quello che è successo un anno fa fra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh”, ricorda Ferrari.
La svolta “epocale” non è stata però solo geografica. È stata la fine della contrapposizione fra “due blocchi geopolitici, quello occidentale e quello sovietico” e soprattutto “tra due concezioni del mondo, politiche ed economiche, divergenti: da un lato il capitalismo liberale e dall’altro il comunismo. La fine dell’URSS ha segnato anche la fine dell’alternativa comunista, che non esiste sostanzialmente più a livello planetario”. I giovani “che non hanno mai conosciuto il ‘900 non si rendono conto di quanto sia stato profondo questo cambiamento, che – conclude Ferrari – ha profondamente modificato la storia dell’umanità”.